L’Urlo di Moro

Pubblicato: 09/05/2025

Intervista al Prof. Carlo Gaudio, Professore ordinario e Primario di cardiologia, giornalista e scrittore, autore del libro “L’Urlo di Moro” (Rubbettino Editore), Premio “Mario Pannunzio” per la saggistica, in occasione  del  47° anniversario della uccisione di Aldo Moro (9 maggio 2025)

L’Urlo di Moro

Da medico-chirurgo a 007 per dirla in senso ironico: cosa ha suscitato la sua attenzione e curiosità sul caso Moro?

Sicuramente, volendo raccogliere l’ironia della domanda, una diagnosi sbagliata: “Moro non è più lucido, è affetto dalla sindrome di Stoccolma, è drogato, scrive sotto dettatura, è un ‘fantoccio’ nelle mani dei brigatisti rossi”. Insomma, Moro non è più Moro. Una diagnosi errata, che - proseguendo la metafora – ha contribuito alla morte del paziente.

E così, svalutandone la figura, la sua lucidità, la sua intelligenza degli avvenimenti - pur in quella situazione di costrizione forzata - mentre si pubblicano e si commentano copiosamente i deliranti comunicati delle BR, si trascurano le lettere di Moro, “moralmente a lui non ascrivibili”, come sosterranno Cossiga, Zaccagnini ed Andreotti – rispettivamente Ministro degli Interni, Segretario politico della Democrazia Cristiana e Presidente del Consiglio dell’epoca – non cogliendone i preziosi suggerimenti, gli spunti, le indicazioni utili al suo ritrovamento ed alla sua possibile liberazione.

La mia analisi testuale delle 86 lettere di Moro aveva come primo obiettivo di restituire Moro a Moro, confutando quella diagnosi errata, dimostrando anzi l’esatto contrario: Moro è sempre Moro, utilizza il lessico e gli argomenti da sempre adoperati come giurista, docente di diritto, padre costituente, politico. Anzi, Moro è talmente lucido che guida la trattativa per la sua vita e la sua liberazione con tale abilità, da riuscire a sfuggire all’occhiuta censura brigatista – che non consegna ben due terzi delle sue missive – mediante delle frasi criptate, che invece raggiungeranno i destinatari da egli attentamente individuati.

Può illustrare questo suo percorso di studio e di ricerca dei documenti che cita nei suoi scritti? Cosa può dirci di quelle famose lettere criptate - ne erano ben 86 - con particolare attenzione al lessico? Cosa voleva comunicare e a chi erano indirizzate?

Compiendo un’analisi lessicale accurata, parola per parola, frase per frase, delle 86 lettere di Moro scritte nei 54 giorni di prigionia e immergendomi con passione negli stilemi della scrittura di Moro, ho analizzato con particolare attenzione alcune frasi, giudicate da autorevoli commentatori “fuori contesto” e – per la prima volta, con un’operazione quasi maieutica – da quelle frasi criptiche sono emersi quei messaggi segreti dello Statista, già evocati nel settembre del 1978 da Leonardo Sciascia e mai prima d’ora svelati.

Le frasi analizzate sono proprio quelle più note, più studiate, contenute nelle lettere recapitate dai suoi carcerieri, a riprova della intatta lucidità di Moro, della sua grande abilità a celare i messaggi segreti, sfuggendo completamente all’occhiuta censura brigatista.

A partire dalla prima lettera a Cossiga, quella recapitata il 29 marzo 1978. Nella quale si trova la frase più celebre dell’intero epistolario, il celebre inciso: “che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato”. Nel quale si riesce ad individuare uno dei raffinati anagrammi di Moro. Da quell’inciso di dieci parole, infatti, emerge il messaggio a Cossiga: “e io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”. Con il quale Moro indica al Ministro degli Interni – in una lettera che lo Statista vorrebbe secretare ma che i brigatisti, del tutto ignari dei messaggi che vi sono celati, rendono pubblica – il luogo preciso della sua prigione. Con la speranza di Moro – forse in quei primi giorni certezza – che l’amico Francesco Cossiga l’avrebbe fatta studiare dagli organi di intelligence, che possedevano certo tutti i mezzi per interpretarla, per decriptarne il messaggio.

Ho così avuto la ventura di recuperare quel Moro “sciasciano”, recluso inerme, che “mandava dalla prigione messaggi da decifrare secondo immedesimazione alle condizioni in cui si trovava”.

La celebre frase “che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato” ha visto recentemente una precisazione da parte di altri giornalisti e scrittori che si sono occupati del caso Moro, citando elogiativamente il suo lavoro: ci può meglio spiegare?

La ringrazio particolarmente per questa domanda, anche perché Lei riporta correttamente la frase, così come vergata da Aldo Moro.

In un recente articolo (Huffington Post, 18 aprile 2025), il giornalista e scrittore Valter Vecellio, del quale ho grande stima ed ammirazione per la sua grande preparazione e la profondità dei suoi lavori, recensisce il bel libro di Claudio Martelli e Francesco De Leo “Mi sento abbandonato. La vera storia della trattativa per salvare Moro”. Sin dal titolo del suo articolo (“Aldo Moro aveva indicato il luogo in cui era prigioniero, ma non si seppe (o non si volle) capire”), l’autore cita elogiativamente le “scoperte” contenute nel mio libro.

Nel corso della recensione, Vecellio scrive: “All’intelligenza dello statista non si dà credito, eppure, forse, aveva provato a dare degli indizi; e per Sciascia uno di questi indizi è proprio quel “che (io) mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. Anche Martelli e De Leo si soffermano su questo punto trascurato, in quella che definiscono “una scoperta semplicemente sconvolgente”. Rimandano alla lettura di un altro libro, “L’urlo di Moro” del professor Carlo Gaudio (Rubbettino), che decritta la frase: “perfetto anagramma di quest’altra: “e io so che sono dentro il p.o. uno di Montalcini n.o. otto". Ovvero “l’esatta ubicazione della prigione in cui Moro è detenuto”. In effetti, se si “gioca” con le sillabe, è quella la frase che si ricava”. Conclude Vecellio: “Rimane, ma è irrilevante, solo il “resto” di una “d” di troppo. Date le condizioni in cui Moro scrive, ci può stare”.

Questo riconoscimento dell’importanza della scoperta degli anagrammi di Moro mi fa, naturalmente, molto piacere. Non certo per polemica, quindi, ma per amore di verità, bisogna rilevare che la precisazione finale di Valter Vecellio, che conclude: “Rimane, ma è irrilevante, solo il “resto” di una "d" di troppo. Date le condizioni in cui Moro scrive, ci può stare”, è frutto di un’errata trascrizione, nel suo articolo, della famosa frase criptata di Moro. Lo statista – come può rilevarsi dal manoscritto originale – scrive, infatti, dominio pieno ed incontrollato” e non dominio pieno e incontrollato”. Dunque, l’anagramma ideato da Moro non ha ‘una “d” di troppo’: è composto dalle medesime 46 lettere del testo contenuto nella missiva inviata a Cossiga.

La frase criptata può dunque considerarsi un perfetto anagramma che suona: “e io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”, mediante il quale Moro indica il luogo esatto della sua prigionia. Come mai non c'è stato un intervento istituzionale per salvarlo?

Si evince chiaramente che nella prima fase del suo sequestro, scandito dal primo gruppo di nove lettere, emerge un Moro vivo, combattivo, che urla la sua speranza, che lancia in mare il suo messaggio nella bottiglia, che nessuno raccoglierà. Moro è così lucido che comprende subito che non si vuol dare ascolto ai suoi messaggi, al suo disperato urlo di aiuto. E lo denuncia chiaramente in una delle due versioni della lettera a Zaccagnini, scritta intorno al 31 marzo 1978: “Sono un ostaggio che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso di scambio di prigionieri rende inutile ed ingombrante”.

Il “non Moro” che è sotto sequestro diventa dunque, per il suo partito, la Democrazia Cristiana, un uomo come tutti gli altri, che rientra nella normalità comune, al quale concedere al più una risposta di tipo umanitario o – come per un Cirillo qualsiasi – un riscatto. Senza l’assunzione di alcuna responsabilità politica che non sia quella del rifiuto di ogni trattativa. Al quale, purtroppo, si accompagna una mancata volontà di ricerca della sua prigione, che non verrà infatti mai sfiorata dalle investigazioni. Moro avverte tutto questo e scrive di sentirsi abbandonato, tradito dalla DC.

Prova ne è che, in pieno sequestro, il 7 aprile 1978, il Presidente del Senato Amintore Fanfani annota nei suoi Diari (custoditi nell’Archivio Storico del Senato della Repubblica): “Negli incontri di Bart[olomei] – Piccoli – Gaspari con i singoli notabili pare che si sia trovato l’80% contrario ad un Cons[iglio] Naz[ionale] e disposto – in ordine sparso – a pensare solo a prepararsi ad un Congresso…  Andreotti… favorirebbe il seguente organigramma: lui al Quirinale, Zac[cagnini] alla presidenza DC, Galloni alla Segreteria e Forlani a Palazzo Chigi. In tutti questi calcoli – commenta Fanfani – nessuno si rende conto che la situazione difficilmente consentirà tante attese…”.

È veramente triste constatare che – a pochi giorni dall’eccidio di Via Fani e nel pieno del sequestro Moro – già si stabilissero organigrammi articolati per spartirsi tutte le poltrone disponibili, perfino quella occupata da Aldo Moro, ancora vivo! (la Presidenza della DC, destinata – secondo l’organigramma favorito da Andreotti – a Zaccagnini).

Che cosa emerge, quindi, dalla sua originale rilettura delle lettere di Moro dalla prigionia?

Emerge, certamente, un Aldo Moro che rimane sempre un uomo lucido, razionale, coraggioso, il politico fine di sempre, il giurista sapiente, il mediatore per antonomasia.

Subito dopo i primi giorni dal tragico agguato, Moro non si arrende, decide di reagire, di combattere. E lo fa  - contro quattro carcerieri spietati e armati fino ai denti – completamente disarmato: senza un avvocato, senza un difensore, senza un appello, provvisto soltanto di una penna biro e di alcuni fogli di carta. Lo fa riflettendo e scrivendo le sue lettere: un lungo epistolario, la cui verità – come in tante vicende oscure della storia della nostra Repubblica e contrariamente ai proclami delle BR (“tutto sarà reso noto al popolo…”) – conosceremo solo a tappe: le poche recapitate dai brigatisti, quelle ritrovate poi in Via Monte Nevoso nell’ottobre del 1978 ed infine quelle ritrovate nel medesimo covo brigatista milanese, incredibilmente non ben ispezionato, solo dodici anni più tardi. Dall’epistolario così ricostruito, probabilmente neppure completo, affiorano quasi un centinaio di lettere, una dozzina delle quali note testamentarie.

Dalle sue lettere, emerge anche l’uomo Moro, il pater familias, che si preoccupa delle vicende dei suoi cari, della salute della moglie, delle professioni e degli studi dei figli, dei loro rapporti familiari, del loro avvenire e, con particolare angoscia, del futuro del suo nipotino di due anni e mezzo, Luca, che Moro ama più di chiunque altro e che avrebbe tanto desiderato seguire ed assistere nella sua fanciullezza ed oltre.

A distanza di 47 anni dalla tragica morte di Aldo Moro, anche alla luce dello studio del suo epistolario, quale lettura è possibile dare di quest’ultimo statista del nostro Paese?

Moro è stato il grande stratega della scena politica italiana della metà del XX secolo: dal superamento del centrismo, con l’apertura ai socialisti, alla «solidarietà nazionale», con l’apertura all’ingresso del partito comunista nella maggioranza governativa.

Scevro da protagonismi, Aldo Moro amava più la persuasione che il leaderismo. Si esprimeva con discorsi articolati, talvolta giudicati prolissi, che però inducevano a riflettere e creavano consenso. Rileggendo l’intero epistolario, ritroviamo lo stesso Moro, la sua intelligenza degli avvenimenti, la sua autenticità, il suo dialogante ingegno politico. Colpisce la sua mitezza anche nella straziante vicenda di un uomo che lotta da solo, senza paura della morte (sarà ucciso dalle BR a tradimento, con una gragnuola di colpi, senza emettere un grido, un gemito).

I giovani dovrebbero conoscere la storia della strage di Via Fani, del massacro degli uomini della sua scorta, dell’epistolario di Aldo Moro, della sua lunga prigionia, della sua fine tragica e solenne, perché, più dei prigionieri di guerra, Moro non si arrende, non rivela nessun segreto di Stato, difende fino alla fine lo Stato di diritto, la libertà, il valore intangibile della persona umana, la sacralità della vita, i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale.

Dr.ssa Mariagrazia MAZZARACO



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